mercoledì 30 novembre 2011

Tutto quello che avreste voluto sapere sul tango e nessuno ha mai avuto il coraggio di raccontarvi, di Raffaella Passiatore

L’esperienza del ‘900 ha ormai reso familiare l’idea che il valore artistico di un’opera sia del tutto indipendente della gradevolezza o meno della cosa rappresentata. Si può quindi fare dell’ottima letteratura basata sul dolore o sulla sofferenza, senza per altro sentirsi vincolati alla descrizione di sentimenti elevati o all’inserimento di una conclusione rassicurante. Del pari, una tela che raffiguri il disfacimento, il degrado e la morte può essere altrettanto valida di un quadro con soggetti ameni e leggiadri. Nelle forme più estreme ciò ha condotto ad una vera e propria estetica del trash e del pulp, che sono rispettivamente il compiacimento nel rappresentare tutto ciò che è privo di contenuti estetici o dichiaratamente anti-artistico, oppure il gusto per la carnalità, l’eccesso, la dismisura grossolana o il plebeo.
Raffaella Passiatore, un’artista italiana trapiantata a Salisburgo che si esprime attraverso la poesia, autrice di prosa, drammaturga, librettista, coreografa, regista, artista di palcoscenico, musicista e ballerina di tango, sembra aver tenuto bene a mente queste idee nella stesura di Tutto quello che avreste voluto sapere sul tango e nessuno ha mai voluto raccontarvi. Racconti.
Già sulle prime il testo appare di incerta collocazione. L’espressione “tutto quello che avreste voluto sapere” suggerisce un intento didascalico, o almeno tendenzialmente oggettivo, mentre la parola “Racconti” presuppone invece una componente di fantasia e di immaginazione che è propria della creazione artistica in senso stretto. Il confine tra le due rimane vago e il compito di tracciarlo viene lasciato alla sensibilità del lettore.
E’ in sostanza una serie di brevi racconti, interrotta da un’ampia digressione, che rielaborano l’esperienza personale dell’autrice come ballerina di tango fra Austria e Germania. Non si tratta quindi di un reportage tendenzialmente oggettivo, bensì di un’esperienza che arriva al lettore filtrata e modulata dalla personale sensibilità della scrittrice. Il risultato è però radicalmente diverso dall’idea convenzionale che potremmo avere della scrittura al femminile. Si percepisce infatti un chiaro gusto del parlar grasso, il compiacimento nel chiamare le cose con il loro nome, senza tanti moralismi e giri di parole, come pure il desiderio di mettere davanti gli occhi del lettore gli aspetti più prosaici e terreni di ogni cosa. Trucco che si scioglie, calze rotte, calli dolenti, acconciature che si disfano sono elementi ricorrenti nelle descrizione di corsi, stages e milongas, con un effetto finale sospeso tra il dissacrante e il grottesco. Potrei sbagliarmi, ma credo sia l’unico libro autobiografico sul tango argentino in cui compaia la parola “rutto”.
Traspare un evidente amore per la teatralità narrativa mentre il registro risulta quasi sempre iperbolico, denso di metafore, sopra le righe, spesso eccessivo e oltre misura. La protagonista ha il sangue così caldo “da cuocerci dentro gli spaghetti”, le sue risate “avrebbero fatto esplodere i vetri delle finestre”, un ballerino ben piantato fa tremare la terra con i passi come un novello King Kong, il dolore alle estremità è descritto come rischio di amputazione di piedi e via dicendo su questo tono. La descrizione è quindi scopertamente caricaturale anche se il risultato non pare sempre all’altezza dell’intuizione di partenza, che pure rivela un’indiscutibile ragione d’essere e un’altrettanto rispettabile autonomia espressiva. Si ha invece la sensazione che l’autrice si lasci prendere troppo facilmente la mano e che quindi l’esito risulti sforzato, quasi una posa da palcoscenico troppo ostentata. Pare a volte di leggere la trasposizione testuale di un cartone animato, con tutte le convenzioni proprie del genere: le bocche si dilatano fino a proporzioni irreali, dagli occhi zampillano torrenti di lacrime, il protagonista scagliato contro muro vi apre delle crepe  e via dicendo.


L’iperbole come convenzione rappresentativa tipica del mondo dell’animazione e del fumetto: da sinistra a destra, tristezza, sorpresa, rabbia.

Noi stessi usiamo simili mezzi espressivi tutti i giorni (“E’ una vita che aspetto l’autobus”) ma qui la sensazione generale è quella di uno strumento utilizzato un po’ a sproposito, laddove non se ne sente affatto il bisogno. L’effetto è divertente sulla prime, ma annoia ben presto e dopo qualche pagina risulta francamente pesante.
La realtà è immancabilmente colta nei suoi aspetti più bassi e carnali, da cui un testo grassamente umorale, ricco di sensazioni tattili, di odori spesso ingrati, di situazioni prosaiche. La bruttezza, l’impresentabile, lo sgradevole vengono esibiti senza pudore. Non stupisce quindi che gli uomini incontrati dalla protagonista siano perlopiù dipinti come creature semi-animalesche, puzzolenti grassoni sudati, esseri scomposti dalle mediocri capacità, intontiti  dall’alcool oppure dediti alla più improbabile seduzione spicciola. I pochi (o le poche) che non rientrano in questo repertorio di umanità disperata sono invece ammantati di luce accecante: il testo scivola allora verso l’ineffabile ed è tutto uno sprecarsi di tempeste ormonali, rimescolamenti di visceri e inturgidimenti vari.
Una valutazione serena non può tuttavia dimenticare alcuni indubbi meriti. La sezione dedicata alla classificazione semiseria dei maestri di ballo è un’autentica perla e lo stesso può dirsi di un’altrettanto felice analisi degli annunci presentati dalle diverse scuole o dai vari festival di tango, dove anzi lo sguardo implacabile della protagonista ha l’effetto di smascherare il convenzionale, l’artefatto o addirittura l’assurdo di tanti contenuti che si pretendono accattivanti e ben confezionati.

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Recensito perlopiù come un testo comico di tono leggero, il racconto pare invece più vicino ad un’idea di umorismo pirandelliano, la cui vena corrosiva è percepibile dalla prima all’ultima pagina. Mi sembra anzi che nell’operazione di Raffaella Passiatore ci sia qualcosa di avvicinabile ai lavori di Duane Hanson (Alexandria, 17 gennaio 1925 – Boca Raton, 6 gennaio 1996) uno sculture americano noto per le sue sculture iperrealiste raffiguranti gente comune alle prese con attività del tutto ordinarie: una coppia di turisti che riproduce i più tipici cliché dell’americano in vacanza all’estero, una casalinga in bigodini che spinge un carrello di supermercato, un’anonima inserviente e così via.
 
Dapprima si sorride compiacendosi della propria pretesa superiorità nei confronti dei modelli, ma subito dopo emerge una sensazione di angoscia nel contemplare delle persone che in fin dei conti non sono molto diverse da noi. La semplice trascrizione fedele e implacabile della realtà, presentata tal quale senza nessun tipo di abbellimento, agisce quindi come uno smascheramento e una denuncia feroce di tutto l’assurdo che circonda le nostre esistenze. Infatti la nostra condizione può rivelarsi compiutamente solo quando la osserviamo dall’esterno, mostrandosi in tal modo per quello che è: spesso inaccettabile, ottusa, alienata, ingiusta e disumana.
Allo stesso modo, se si prescinde dall’umorismo e dalla caricatura, certe pagine Raffaella Passiatore rivelano delle profondità insospettabili. Il dissacratorio vale infatti anche come esortazione al disincanto, demolizione di orpelli culturali e inutili luoghi comuni, invito perentorio a rifiutare ogni sorta di abbellimento posticcio della nostra esperienza. La loro semplice contemplazione disincantata finisce per portare alla luce tutto lo sgradevole e l’impresentabile che offre lo stare al mondo. Un po’come se l’autrice ci dicesse a chiare lettere che la nuda verità della vita è esattamente così come viene raccontata, senza finzioni, senza falso lirismo o inutili travestimenti. Siamo quindi obbligati a guardarla negli occhi con coraggio perché altra e diversa realtà semplicemente non esiste.
Quando questa recensione era ancora allo stato di abbozzo, feci leggere la prima stesura ad un’intelligente e profonda compagna di tango che mi ha arricchito di un prezioso punto di vista femminile sull’argomento. Essa mi ha fatto notare come la maggior parte dei libri sull’argomento finiscano inevitabilmente per celebrare il ballo e l’ambiente che lo circonda, il cameratismo con i compagni di studio, la magia dell’abbraccio, la spontaneità, lo stato di gioia, un muto dialogo espresso dai corpi che interpretano e condividono una musica, il cuore con quattro gambe, il tacito patto responsabilità/fiducia tra uomo e donna, la raffinata sensualità ed eleganza che emana dalla coppia che danza in sintonia e via su questo tono.
La protagonista balla, gradisce il tango, le piace la milonga, non ne può fare a meno. Malgrado questo presenta tutto il peggio, esagerato ed elevato all’ennesima potenza, del suo vissuto personale, delle sue esperienze, grottesche, amare, tristi. Non per niente vive nella terra di Freud. Difficile, fastidioso, imbarazzante ma pur sempre ostinatamente reale. Un po’ come un reportage di guerra: mette davanti senza filtri, senza preavviso, ciò che non si vorrebbe mai guardare.
Detta altrimenti, un merito non trascurabile del libro è anche quello di metterci in guardia sulla nostra difficoltà a distinguere i documenti dalle semplici rappresentazioni culturali: gli uni sono modelli tendenzialmente oggettivi della realtà, gli altri invece non descrivono il mondo com’è bensì come noi vorremo che fosse, ovvero sono una proiezione dei nostri desideri e dei nostri bisogni.

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Dunque niente magia, sogni, sentimenti. Invano si cercherebbe umanità, comprensione o empatia nello sguardo che l’io narrante dell’autrice rivolge al mondo che la circonda. Il suo giudizio è di volta in volta cinico o disincantato, spesso addirittura gelido verso ciò che non apprezza, non capisce o non si allinea alla sua visione delle cose. Le riviste di tango contengono perlopiù “idiozia”, mentre la visione di uno spettacolo di danza euritmica gli ricorda senza tanti giri di parole “un teatro dell’assurdo in una casa per malati di mente”. Su tutto aleggia un’atmosfera blasé, un’espressione che si immagina di annoiato scetticismo, quello storcere il naso di fronte alla irrimediabile pochezza delle milonghe di provincia, piene di uomini di modesto talento e poca avvenenza, oppure il fastidio a stento trattenuto per la mediocrità altrui. A volte l’autrice non sembra tanto mettere in scena tutte le possibili meschinità del tango, bensì ricordarci qualcosa di ben diverso e assai più profondo: la nostra costante incapacità di essere felici.
Non affannatevi dunque a scoprire nel testo la serena consapevolezza dei limiti personali, il pacato riconoscimento della propria fragilità e fallibilità, l’umano desiderio di essere teneramente coccolata nell’abbraccio, né tanto meno un senso di meraviglia e di stupore per la bellezza rivelata dalla danza. La protagonista si muove sulla scena del tango come un rullo compressore, in un nichilismo ostentato che travolge persino se stessa: tornare a casa e smettere l’abito da sera è per lei è semplicemente “gettare il puttanismo nella lavatrice”. Tanto di cappello ad una coerenza senza dubbio non comune, se solo si pensa alla frequenza con cui gli scrittori si nutrono di compiacenti fonti autobiografiche.
Sarà la vaga atmosfera teutonica che promana sin dalle prime pagine, ma se si volesse trovare un equivalente pittorico all’agire della protagonista non viene in mente la diafana morbidezza delle donne di Alphonse Mucha, bensì certe raffigurazioni dell’espressionismo tedesco, quelle figure femminili aspre, spigolose, a volte grottesche, dipinte con colori dissonanti.

 

Da sinistra a destra: Alphonse Mucha, La danza; Ernst Ludwig Kirchner, Cinque donne nella strada.

Il tutto è ovviamente opinabile finché si vuole. L’incontestabile esistenza della solitudine, dell’abbandono e del tradimento non è forse la spinta più concreta a ricercare le tenerezze dell’amore romantico? Già, forse si ride, ma a mio parere in modo amarissimo.

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Il libro si può accostare ad “Amore tango” di Maria Finn, essendo entrambi racconti autobiografici di donne che esplorano l’universo della danza. Gli esiti sono tuttavia diversissimi. La scrittrice newyorkese, pur nei limiti di una semplice struttura narrativa, è un personaggio indubbiamente ben confezionato: sperimenta la sconfitta, vive in prima persona il senso di fragilità e di inadeguatezza, ma alla fine si riscatta e riconquista la serenità tramite un’evoluzione interiore ed una trasformazione personale che le aprono nuovi orizzonti. Un personaggio con cui è abbastanza facile identificarsi, o che perlomeno  riscuote facilmente la simpatia di chi legge.
L’io narrante di Raffaella Passiatore rimane invece perfettamente uguale dall’inizio alla fine, mantiene sempre lo stesso atteggiamento e risulta ostinatamente impermeabile a qualsiasi suggestione possa venirle dall’esterno. Tutta la sua esperienza personale, così come viene raccontata, sembra anzi intonata a qualcosa di grigio, freddo e duro, che sa di rigidità teutoniche e di cieli sconfinati color cenere: la tristezza delle sue lunghe domeniche solitarie da single, le sedute con il suo psicanalista, di cui ormai confessa di non poter più fare a meno, le sere a bere champagne da sola a lume di candela (e scolarsi l’intera bottiglia), i viaggi da un posto all’altro per ritrovare alla fine sempre le stesse cose.
Sorprendentemente numerose sono invece le analogie sul piano del vissuto personale: entrambe donne colte e intelligenti, con un matrimonio fallito alle spalle, una serie di esperienze sentimentali inconcludenti e infine l’approdo al tango come esperienza assorbente e totalizzante.
Viene da sospettare che ogni epoca storica rielabori costantemente il proprio modello di eroina sfortunata. Come l’Ottocento aveva le sue Mimì consumate della tisi oppure le sartine sedotte ed abbandonate da aitanti ussari, così il XXI secolo produce colte ed emancipate donne di successo, perennemente oppresse da relazioni infelici o insterilite dalla solitudine, le quali ad un certo punto della loro vita chiudono la partita con il genere maschile, concludono di poter bastare a sé stesse e si dedicano anima e corpo ad un’attività gratificante che non richieda eccessivi investimenti emotivi. Sempre irrequiete, perennemente inappagate, costantemente in movimento. Chi parla con il gatto, chi abbraccia gli alberi, chi colleziona viaggi attorno al mondo e chi – appunto – impara a ballare.

Cos’è piaciuto:

  • Indubbio e meritorio coraggio nel procedere controcorrente, allontanandosi completamente dal repertorio dei soliti luoghi comuni;
  • Radicale operazione di demistificazione, forse opinabile nei fini, ma condotta con notevole coerenza;
  • Insospettabile profondità di alcune implicazioni esistenziali.
  
Cosa non è piaciuto:
  • Gusto dissacratorio di maniera, spesso semplicemente fine sé stesso;
  • La demolizione dei luoghi comuni non apre nuovi scenari o conduce a proposte alternative.
Il giudizio in una riga: Potrebbe essere Pulp Fiction ambientato a milonga. Ma se proprio non siete fan di Quentin Tarantino rischia di sembrarvi politically incorrect per partito preso.  

La frase da ricordare: “La musica cessò ed io mi fermai di colpo”.

Scheda: Tutto quello che avreste voluto sapere sul tango e nessuno ha mai avuto il coraggio di raccontarvi : racconti / Raffaella Passiatore - Bari : Florestano, 2006.  - 89 p. ; 21 cm. - ISBN 88-901857-4-0 Euro 9,50

5 commenti:

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  3. ti dedichiamo lacanzone SUPERSOLO RENATO ZERO! e' latua canzone !!

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  4. tango pienodi misteri prova a raccontarli tu .. notte complice tu sei... nootte ..scendchiara su di lei e bacia i suoi sospiri fa' che uno sia per me..
    la ia solitudine ..lascia che sia una nuvola che se ne va ...notte amica degliamanti dentro a te mi perdero'' notte la mia complice tu sei prendi i miei respiri .. luciano pavarotti

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  5. grazie per avre pubblicato quest articolo mettendo le foto dei cartoni nipponici!!japnese manga art

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